mercoledì 19 dicembre 2012

Il rito

Una volta conobbi un vecchio, seduto alla fermata dell'autobus. Ci mettemmo a parlare del tempo, della politica, dei giovani che non sono più quelli di una volta e che pure, poverini, devono affrontare tanti di quei problemi. Chissà dove lo trovano il coraggio, si chiese ad alta voce.
Poi si fermò d'un tratto - sembrava pensare ad altro - mi fissò negli occhi e mi chiese: Tu credi?
Sì, risposi. Lo dissi con fermezza, deve essere stato quello ad averlo stupito.
Allora ti faccio un regalo, mi disse. Ti regalo una cosa che mi venne regalata quando avevo più o meno la tua età. Si tratta di un segreto. O di un rito. Chiamalo come vuoi, sta a te decidere se accettarlo o cestinarlo. Il mio regalo è questo: ogni sera, prima di addormentarti, ringrazia il Signore per tre cose che sono avvenute durante il giorno. Possono essere di più se vuoi, ma mai meno di tre. E' importante: mai meno di tre. Ed è importante farlo una volta sdraiati a letto, un attimo prima di chiudere gli occhi ed addormentarsi. Non farlo mentre ti metti il pigiama o mentre ti lavi i denti. Questi dettagli sono importanti, perché non sia un...una idea romantica, ecco, non è una sorta di ventata di ottimismo prima di andare a letto. E' molto diverso. E' un rito, è qualcosa di più importante e di molto ricco, se fatto con fede. Pensaci: ogni giorno che Dio ci concede su questa terra, qualunque cosa sia accaduta, lo terminiamo sempre nello stesso modo, chiudendo gli occhi e addormentandoci. Per gli antichi era un po' come morire. Per questo è importante santificare quel momento lì, perché l'ultima cosa che faremo quando moriremo, chiudendo gli occhi per l'ultima volta, possa essere benedire e non maledire, ringraziare e non accusare. Vivere e non morire, in un certo senso.
Lo guardai in silenzio. E' un bellissimo regalo, dissi. Grazie.
Sono contento che ti piaccia. E' importante anche questa cosa dei riti. Ora non è più come una volta, ed è un peccato. Prendi ad esempio il...oh...il mio autobus, è arrivato finalmente...beh ti saluto giovanotto, passa una buona giornata.

Si alzò zoppicante e sorridente, e salì sul 309.
Le porte si chiusero dietro di lui.


Non lo rividi più.

venerdì 16 novembre 2012

Ho ucciso molti uomini - mi hai detto.


La televisione accesa, l'interno è quello di una camera d'albergo extra lusso.
L'uomo in piedi davanti alla finestra guarda fuori, il sole sta sorgendo sul Bosforo.
Nel bagno c'è la doccia aperta. Una ragazza si sta lavando.
L'uomo ha appena finito di scrivere un racconto su un foglio di carta bianco. La penna è adagiata accanto alle ultime parole: "E quel bambino, ero io".
Si sta chiedendo cosa ci sia di vero in quello che ha scritto. Sicuramente non c'è nessun acquario vuoto lì, questo è evidente. E nemmeno sta impugnando una pistola. Ma tutto il resto?

E' un ricordo? Un'invenzione?
Dove finisce il reale e dove iniziano gli scherzi della mia mente?

E' il confine, quello è il difficile da trovare, puoi impazzire a cercarlo per anni. Il confine tra terra e mare, tra anima e psiche, tra realtà ed invenzione.
Il confine tra psicosi e normalità, se solo esistesse davvero la normalità in questo mondo.

Disturbo borderline di personalità: forse è di questo che si tratta.



Che vuol dire?
Che vuol dire cosa?
Quello che hai detto stanotte. Ho ucciso molti uomini, mi hai detto
 
La ragazza è uscita dalla doccia, si è infilata l'accappatoio, si é asciugata. I capelli biondi sono scombinati, scendono confusi sopra il suo seno, coprendolo solo parzialmente. È alta, quasi quanto lui.
Lo guarda fisso negli occhi, e non c'è nel suo sguardo alcuna traccia del sorriso che mesi fa gli tolse il sonno.
Guardandola in piedi, nuda di fronte a lui, l'uomo si sorprende a tremare.

E' come se lo avessi fatto.

Con una grazia da fermare il cuore, si sfila l'accappatoio e si siede sul letto, ancora sfatto.
Sempre senza un sorriso.
È quello ad essere davvero agghiacciante, non le sue parole, nè i suoi gesti così freddi e distaccati nella loro perfezione estetica. È quella totale assenza di sorriso, la mancanza di un conforto che ormai non è più.

Ecco perché sta tremando.
Si sentiva a casa pochi minuti fa. Ora è in un posto sconosciuto, per la prima volta.


E non averlo fatto è stato proprio come averlo fatto.


Che intendi?

Non sono una bella persona, Jeff. Tu non mi conosci affatto. Gli uomini vengono da me cercando un conforto, attratti dalla mia bellezza, dalla mia intelligenza, dalla mia ironia. E tutti - tutti - fanno una brutta fine. Certo non ho mai ucciso nessuno veramente, ma è come se lo avessi fatto. Sono una fiamma accesa che puoi ammirare solo da lontano. C'è una distanza di sicurezza, capisci? Una distanza che devi mantenere per restare vivo, e godere di me e non bruciare. Ma questa distanza non l'hai rispettata. Ne ho visti tanti cadere e bruciare in questo modo assurdo, per un errore tanto ingenuo. Tu non sei che uno dei tanti. Cazzo, siete delle specie di falene. E siete maledettamente prevedibili.

Io non sono uno dei tanti, non sono come gli altri.

Infatti, sei peggio di loro. Stai bruciando e nemmeno te ne sei accorto.

Non é vero, sto benissimo. Mai stato meglio.

Sorride, meglio che può.

Ho anche iniziato a scrivere un racconto. Finalmente ho ripreso a scrivere. Ho superato il mio dannatissimo blocco. Avevo ragione a pensare che tornare qui mi avrebbe aiutato.

Sì, la storia di un bambino che uccide un uomo seduto su una panchina. Bel racconto, complimenti.

Come fai a saperlo? Non te ne ho parlato.

Sì che lo hai fatto, solo che non lo ricordi con esattezza, si torna sempre lì. È una storia vecchia quella, una brutta storia che ancora non hai superato. Ma il punto non è questo.

E qual è il punto allora?

Il punto è che sei un matto schizzato, matto come un cavallo. Sei impazzito del tutto quando me ne sono andata, e da allora non ti sei più ripreso. Oddio, non che prima fossi del tutto normale, con quella sindrome strana che hai solo te. Ma da quando me ne sono andata, è tutto peggiorato.


Lui la guarda negli occhi. Ora vorrebbe andare via, essere altrove.



Facciamo così, ti piace scrivere giusto? Ho un nuovo racconto per te.


Si alza in piedi, ancora nuda attraversa la stanza fino a sedersi sulla sedia davanti alla scrivania. Per tutto il tragitto lui non le ha tolto gli occhi di dosso. Continua ad osservarla mentre scrive alcune frasi su un foglio, accanto al racconto che lui ha lasciato lì, incompiuto.

Finalmente finisce, alza lo sguardo, lo fissa sugli occhi di lui.

Vediamo se ora capisci.

Gli porge il foglio e torna a sedersi sul letto.

Sono solo poche righe, sembrano una parte di un racconto, la descrizione del dialogo tra un ragazzo e una ragazza eppure terminano con le parole "si rigirò nel letto, solo".



Ma non è importante il racconto in sé.
Il punto è la scrittura, la grafia, che è la stessa dell'altro foglio.

Quello che ha scritto lui.










Non ha bisogno di alzare gli occhi dal foglio per capire che lei non è più lì.

sabato 3 novembre 2012

Il buon jazz

Il cotton club di Roma di trova dietro piazza Istria. In una via davanti alla quale sono passato per 5 anni, andando a scuola. Eppure io 'sto locale io non l'avevo mai notato. Forse perché non ha aperto da tanto tempo. O forse perché da fuori sembra decisamente bruttino, o, quantomeno, insignificante.

Tralascio la fase organizzativa della serata: io e il gigante surio abbiamo dato il meglio di noi nella nostra lotta contro un destino avverso che si é palesato in una serie di buche all'ultimo minuto rifilate da gente di tutti i tipi.
Basti sapere che alla fine, in un modo o nell'altro, un gruppetto di sei persone ce l'abbiamo fatta a tirarlo su, e cosí siamo andati a sentire cosa aveva da raccontare il grande Lino Patruno con i suoi "blue four".

Giá l'interno del Cotton Club ci porta indietro nel tempo di una settantina d'anni. Non solo per l'allestimento della sala, che sembra uscita dagli anni 40, ma anche per l'etá media del pubblico, decisamente altina.
Probabilmente siamo gli unici ad avere meno di 40 anni, ma ce ne preoccupiamo poco e ci accomodiamo al nostro tavolo, situato in uno scomodissimo angolo da cui praticamente non si vede il palco. E vabbé.

Appena salgono sul palco Lino Patruno e il suo violinista, si capisce subito che la serata sará di grande livello.
Dico subito che Lino é il nonno che tutti noi vorremmo avere.
Un vecchietto sorridente che con una voce ammaliatrice ed una chitarra in mano ti parla della storia della musica, ti racconta di Joe Venuti, di New Orleans, del Jazz, e tutto questo non (solo) da grande esperto ed amante di quel mondo lì, ma da vero protagonista. Un po' come sentirsi raccontare la seconda guerra mondiale da un reduce, solo che questa è musica, è bellezza, non c'è sofferenza o rimpianto nelle sue parole ma solo un grande sorriso mentre divertito racconta storie assurde di molisani emigrati in america per inventare il Jazz e poi morti giovanissimi a seguito di operazioni sbagliate, o la storia di Bing Crosby il primo grande cantante bianco di Jazz, o l'incredibile storia di Django Reinhardt, il chitarrista che perdendo due dita in un incendio inventò una tecnica chitarristica tutta sua, che ancora oggi lascia ammirati i fan del genere.
La serata vola così, con Lino che introduce ogni pezzo raccontandone la genesi e l'importanza artistica, accompagnato da un gruppo di musicisti che sono dei veri e propri personaggi. Su tutti, il trombettista Michael Supnick e il vocalist Clive Riche, che tengono il palco alla grandissima.
Ma il vero protagonista è probabilmente un sax basso degli anni 20, un oggetto spettacolare solo a vedersi, e con un suono caldo e profondo che ha stregato tutti i presenti. Il sax di suo ha un suono bellissimo, ma ragazzi questo veniva proprio da un altro pianeta.

La serata non poteva non concludersi con l'acquisto di un cd, e gli autografi di rito, e le foto di gruppo con quasi tutta la band, e le strette di mano, e i complimenti a profusione, e i ritorneremo sicuramente.


E rimane nell'aria un sospetto, che con il passare del tempo diventa convinzione.
Siamo nati nell'epoca sbagliata, in ritardo di una sessantina d'anni.

Mannaggia a noi.






martedì 23 ottobre 2012

Un mare troppo piccolo e asciutto. Senza pesci.
Inizia tutto così.

Se fosse un libro, questo sarebbe indubbiamente il


Capitolo 1


Lui è un uomo, di 32 anni. E' seduto su una panchina e sta fissando due bambini che giocano davanti a sé. Ha l'aria di chi ha appena perso qualcosa: una donna, un lavoro, qualcosa. Quel che è peggio nel suo sguardo, è l'evidente cupa rassegnazione alla perdita, come un fatto ineluttabile, incontrastabile.
In quel morto pomeriggio di inizio aprile, un uomo seduto su una panchina sta pensando di uccidersi. Ancora peggio, sta pensando di non dover fare nemmeno la fatica di trovare una lama con cui tagliarsi le vene, o un sottoscala dove impiccarsi.
Stanno venendo a prenderlo. E poi sarà tutto finito.
Finalmente.
Si chiama Daniel, l'uomo sulla panchina, e dopo un mese in fuga tra scantinati e rifugi improvvisati negli angoli più nascosti della città, si è arreso. Non ce li ha quei soldi e non li troverà mai.
Venissero a prenderlo lì, alla luce del sole, davanti a tutti i passanti. Gli tolgano finalmente l'imbarazzo di quell'attesa grottesca e gli restituiscano il diritto di un sonno ristoratore, anche se eterno.

Uno dei bambini che stanno giocando si volta d'improvviso e lo fissa inquieto, come se udisse i suoi pensieri. Lo guarda così a lungo da indurlo a pensare: eccoli, finalmente mi hanno trovato. Eppure è evidente: la pistola che gli sta puntando contro è solo un giocattolo. Un colpo, due colpi. Bang bang. Ti uccido capo dei cattivi. Bang bang.

Mentre abbozza un sorriso, un solo proiettile lo trapassa di netto da un lato all'altro del cranio. E' sufficiente a farlo stramazzare in un lago di sangue, mentre una macchina si dilegua indisturbata ad una decina di metri da lui.
Non si è udito nessuno sparo, per questo passa del tempo prima che qualcuno capisca cosa sia accaduto. Esattamente 15 secondi.
Il tempo esatto impiegato da una ford nera per allontanarsi di tre isolati, girare a destra e perdersi chissà dove.
Il tempo esatto impiegato da un bambino per raggiungere sua madre, pallido e tremante, ed indicando verso una panchina, mormorare: mamma, ho ucciso quel signore.



E' una storia strana da raccontare, mentre fisso questo acquario vuoto, come un mare troppo piccolo e asciutto, con una pistola in mano.
Quell'uomo era solo uno degli ultimi pesci, piccolo e insignificante.



E quel bambino, ero io.

martedì 16 ottobre 2012

Oggi in aereo ho conosciuto una ragazza bellissima.
Aveva gli occhi tristi, occhi alla ricerca di Dio senza saperlo.
Viaggiava in compagnia di un prete di colore di nome Amos e di una signora, diretti tutti e tre in Tanzania per una missione umanitaria, tre mesi in un orfanotrofio.

Potevano essere personaggi di un film, o meglio ancora sembravano usciti da una puntata di Lost.

E come in un film, conoscerla è stato così semplice e naturale da farmi pensare per cinque minuti: adesso mollo tutto, cambio volo e vado con loro in Tanzania. In fondo è semplice, i soldi per effettuare il cambio di biglietto li ho. Magari i primi giorni sarei un po' in difficoltà con il vestiario ma se riuscissi a far arrivare a destinazione il mio bagaglio - che al momento è diretto ad Antalya - avrei almeno un paio di camicie di ricambio.
Forse possono bastare, per qualche mese.

Manderei a puttane una carriera nella mia società, alla quale non ho mai creduto, in fondo. Poco male.

Ma la vita non è un film, mi sono detto. Smettila di illuderti e di sognare.

Mentre pensavo questo, uscendo dall'aeroporto, sono incappato in un uomo in ginocchio, nelle mani una scatoletta, nella scatoletta un anello, davanti all'anello una ragazza imbarazzatissima, dietro di loro una folla urlante, nell'aria le note di non so quale canzone romantica.
Lei dice di sì.
Si baciano e tutti nell'aeroporto applaudono.

Ho sorriso di cuore a quei due futuri sposi, mi sono diretto al bancone della Turkish Airlines e ho cambiato il mio biglietto.

In questo momento, mentre scrivo, sono sull'aereo per Dar Es Salaam.
E nient'altro conta.

sabato 6 ottobre 2012

Now you're just somebody that I used to know

Mi piace scrivere, questo è risaputo. Ma non tutte le cose che scrivo vengono pubblicate, ed è bene così.
A volte quello che appare su questo blog sono solo degli estratti, stralci di discorsi più importanti che non ho mai voluto affrontare scrivendone pubblicamente.

Altre volte mi piace scrivere in maniera nascosta, spargendo indizi su di me che probabilmente mai nessuno coglierà.
E spesso mi nascondo dietro la mia musica.

Poco fa ho riletto il mio post di qualche mese fa, "only moment we were alone", che sarà risultato incomprensibile ad eventuali lettori. Eppure rileggendolo sono rimasto stupito dall'esattezza di quelle parole, che solo in parte sono mie.
Mi capita davvero raramente, quasi sempre quello che scrivo mi suona patetico già pochi secondi dopo aver cliccato sul pulsante "pubblica".

Stavolta quelle parole erano un percorso, come una strada tracciata sulle note dell'album "The earth is not a cold dead place" degli Explosions in the sky, ed in particolare attraverso i titoli delle cinque canzoni che lo compongono.

E quella strada, era la mia.
Oggi, a distanza di mesi, quelle poche righe mi suonano ancora incredibilmente vere, con un realismo persino maggiore di quando le scrissi.
Dentro c'è la mia storia con Benedetta, ovviamente, e gli ultimi mesi di una relazione tutt'altro che facile.
Non l'ho mai nominata esplicitamente su questo blog, credo, eppure la sua presenza è stata tutt'altro che un dettaglio della complessa fraenk's mind, e quindi in un certo modo c'era anche lei dietro i post degli ultimi 5 anni.
Ma parlarne adesso sarebbe totalmente inutile, quindi non lo faró.

Mi premeva però dire questo

Fraenk's mind is not a cold dead place

martedì 2 ottobre 2012

[...]

E' difficile sì. Provateci voi a vivere con una testa come la mia, con un'orchestra che suona in continuazione, archi, fiati, tromboni, e quel che è peggio è che è un'orchestra scordata, che non va a tempo, le note non tornano mai, è tutto maledettamente dissonante.


Non c'è musica, è questo il dramma.
Non c'è più musica.

mercoledì 18 luglio 2012

Only moment we were alone

Siamo mai stati soli davvero? O c'è sempre stato altro a confondere le menti e i cuori?

C'è stato un momento, questo so, un momento unico in cui siamo stati soli, noi,
ed è stato bello,
è stato memorabile.

Può bastare a risvegliarci dal coma e fare il primo nuovo respiro, finalmente?
O non è stato altro che un memoriale, il ricordo della tua mano nella mia dopo troppo tempo.

Sei giorni nel fondo di un oceano senza fondo bastano ad uccidere ogni speranza.

Forse tutto questo serve solo a ricordare
che questa terra è come il mio cuore,
e non è un posto freddo
e non è un posto morto.













Esplosioni nel cielo.

Ci sono esplosioni nel cielo.

lunedì 9 luglio 2012

2 + 2 = 5  ovvero di come matematica e musica non vadano poi così d'accordo



All'inizio dell'anno 2000 scoprii gli Smashing Pumpkins, che rappresentarono un po' il mio battesimo musicale.

Nel dicembre del 2000 gli Smashing Pumpkins si sciolsero.

"Ah, nell'acido?" avrebbe chiesto pochi giorni dopo un simpatico amico incurante del mio dolore adolescenziale.

Mentre scoprivo altre decine di gruppi - intraprendendo un percorso che di lì a pochi anni mi avrebbe condotto ad apprezzare il math-rock degli Slint e le eteree atmosfere dei Sigur Ròs - Billy Corgan tornò sulle scene.

Il pelatone non ce la faceva proprio a stare fermo e buono, dopo aver decretato la fine di un gruppo che - vuoi o non vuoi - era stato uno dei capisaldi della musica rock anni 90.
E così fondò un nuovo gruppo: gli Zwan.

Oggi mi è rivenuto in mente quel periodo, la spasmodica attesa di scoprire quale nuova creatura avrebbe partorito la mente geniale di Billy, le prime registrazioni che giravano di soppiatto tra i fan.

Ci sono molte cose da dire. Bisogna capire che gli Smashing Pumpkins hanno lasciato le scene alla grandissima.
Hanno pubblicato un disco che io ho adorato, e subito dopo ne hanno pubblicato un altro - o meglio ne hanno stampate 25 copie in vinile e le hanno regalate ad alcuni amici pregandoli di diffonderle su internet.
Gratis.

(Tutto questo nel 2000, ovvero 7 anni prima dei Radiohead con il loro In Rainbows. Tanto per capire.)

E dopo tutto questo fecero un contest. Dissero che quei due dischi raccontavano una storia e i fan che riuscivano a coglierla nella sua interezza vincevano premi fighissimi tipo la Stratocaster di Billy o un biglietto per il loro ultimo concerto.
Ecco anche questo: il loro ultimo concerto lo fecero a Chicago nello stesso locale dove si esibirono per la prima volta con il nome Smashing Pumpkins.
E Billy Corgan si commosse fino alle lacrime.
Che poesia. Che finale.
Insomma era tutto molto bello, davvero.

Ma l'attesa per questi Zwan non era solo per Billy Corgan, ovviamente.
Dagli Smashing Pumpkins, Billy si era portato dietro Jimmy Chamberlin, un batterista con le palle fumanti, uno di quelli che ti improvvisava assoli di batteria da restarci a bocca aperta, con la classe figlia del jazz da cui (in parte) proveniva.

Mica solo questo. Alla chitarra e al basso si era piazzato un tale David Pajo, uno che ha praticamente inventato un paio di generi musicali assieme agli Slint e che poi ha continuato a rivoluzionarli assieme ai Tortoise e sotto il nome di Papa M. Insomma, uno di quelli che trasformano in oro tutto ciò che toccano.

E per fare trentuno, era stata chiamata pure Paz Lenchantin, una che veniva dagli A perfect circle, non la prima che passava, ecco.

Insomma, avevano tirato su un gruppo che avrebbe rivoluzionato il mondo, senza scherzi.

Fecero pure una cosa geniale: in pochi mesi organizzarono dei concerti sotto il nome "The True Poets of Zwan" e presentarono i loro nuovi pezzi, freschi di scrittura. Pezzi grezzi, indubbiamente. Ma cavolo, belli. C'era dell'ottima roba lì dentro, da far venire l'acquolina in bocca, da aumentare l'attesa.
Dopo pochi mesi si presentarono ancora sul palco. Stavolta con un nome diverso: "The Djali Zwan". E con canzoni totalmente diverse, nuove, acustiche. E belle anch'esse, diamine.

Passarono altri mesi, l'attesa era ormai alle stelle. In un anno il pelatone ed i suoi amici avevano scritto parecchie nuove canzoni - chi conosce un minimo Billy Corgan sa quanto sia prolifico, le canzoni pubblicate saranno un 30% delle canzoni che ha scritto e non sempre le migliori - bastava solo metterle su disco e il gioco era fatto.

Signori, il capolavoro è servito.


A gennaio 2003 esce "Mary Star of the Sea", firmato da loro, gli Zwan.




Molte canzoni sono nuove, alcuni pezzi di quelli provati nei mesi precedenti sono stati riarrangiati.




E il risultato è uno schifo.




Un disco orribile, a partire dalla copertina. Uno dei peggiori dischi che la musica rock ricordi, probabilmente.
E senza dubbio una delle peggiori delusioni musicali dell'ultimo ventennio.








Gli Zwan si sciolsero pochi mesi dopo, per l'imbarazzato sollievo di molti critici e anche del sottoscritto.

giovedì 21 giugno 2012

Dove diavolo è Matt?

E' in Rwanda, Spagna, Pennsylvania, Siria, Nuova Guinea. E' stato anche a Roma, e nemmeno mi ha chiamato.

Ma iniziamo dal principio: chi diavolo è Matt?

E' un ragazzone, che nel 2006 si è reso conto di non saper ballare. Deve aver pensato una cosa del tipo: se sono così ridicolo mentre ballo, forse lo sarò di meno se lo faccio in ogni singolo angolo del pianeta.

E così ha fatto, ha pubblicato un primo video in cui si esibiva nel suo caratteristico ballo saltellato in svariati punti del globo, da Petra a Guam, da Machu Picchu ai fondali della Micronesia.

Quel video ha avuto parecchio successo su internet e nel 2008 ne ha pubblicato un altro, peraltro con una colonna sonora che a me piace moltissimo.

E, da ieri, è online il suo terzo video.


Io non lo so perché, ma questi video mi lasciano sempre incantato
e commosso.

E' davvero strano, non hanno proprio nulla in sè che sia commovente. Di fondo sono bei video, sì, un'idea molto carina, ma non c'è proprio alcun motivo per cui dedicargli un post sul mio preziosissimo blog.
Non lo so perché reagisco così, deve essere qualcosa che ha a che vedere con la grandezza del mondo e di fondo con la bellezza della vita, senza volerla buttare troppo sul filosofico-dawsoniano.

O forse ha solo a che vedere con la mia frociaggine latente.

Fatto sta che anche questo terzo video mi ha lasciato a bocca aperta, e quindi merita di essere visto.




Questo è invece il video del 2008

lunedì 18 giugno 2012

In effetti l'elenco non era finito, l'avevo detto.

Ce ne sarebbero tanti, di sogni piccoli e grandi, molti ancora da realizzare.

Uno era piuttosto piccolo, e semplice.




Guidare una moto d'acqua.


[Flashback - Fraenk appena 17enne, in vacanza da solo a Porto San Giorgio con la sua ragazza dell'epoca. Tre giorni meravigliosi, che te lo dico a fare, tra i più belli della sua vita. Mentre passeggiano sulla spiaggia, incappano in un gabbiotto che propone affitti di pedalò, canoe, moto d'acqua. Avere 16 anni, l'unico requisito richiesto. Fraenk e la sua ragazza si guardano, che facciamo, andiamo? No dai vabbè, facciamo un'altra volta.
Pochi anni dopo, con il decreto legislativo n.171 del 18/07/2005, diventa obbligatoria la patente nautica per guidare le moto d'acqua in Italia.
E Fraenk rosica.]

In turchia evidentemente la legge è diversa, o forse si fanno meno problemi chissà. Non hanno voluto nemmeno una carta d'identità, 70 lire turche per 10 minuti, puoi allontanarti quanto vuoi anzi devi allontanarti, non stare vicino alla riva, queste sono le chiavi, vai.

Aspetta, e se cado?  - dico con il mio inglese sbilenco, fatto di gesti, parole sbagliate, smorfie e suoni onomatopeici che il più delle volte fanno sorridere l'interlocutore, e più raramente gli fanno capire qualcosa -

No, non cadrai.

Ok, ma se cado?

Se cadi la moto si spegne e risali da dietro. Ma non cadrai. Ora premi il pulsante rosso.

Il motore si avvia. Dò un po' di gas.

E parto.


Ora, come sempre è difficile da descrivere, ma ci provo.

I primi minuti passano veloci, prendendo confidenza con le curve, imparando un po' a bilanciare il peso. E' un giocattolino, davvero.

Finalmente prendo coraggio e schiaccio la leva dell'acceleratore al massimo.
Adrenalina pura.
Nel nulla, il mare ovunque che balla sotto il rombo del motore, solo il mare, io e il mare, la velocità, il vento in faccia, mi metto in piedi ed inizio a gridare come un ossesso, c'è tanta di quella vita che vuole uscire e sembra che l'unico modo per farlo sia quello, schiacciando l'acceleratore, volando a pelo dell'acqua, lasciandosi andare e gridando fino a perdere la voce.

Ecco, io forse non so cosa sia la libertà, ma qualunque cosa sia non può che assomigliare a quella sensazione lì, così lontana dalla mia vita fatta di strade e semafori e traffico e compromessi e quieto vivere. Il vento in faccia a 60 km/h in un mare dove qualunque strada è possibile, qualunque traiettoria immaginabile. Un mare dove una curva un po' più stretta può farti cadere forse - ma no, non cadrai - e comunque solo per farti fermare un attimo e ripartire, senza più paura. Un mare dove l'inevitabile non esiste, perché non ci sono punti di riferimento, c'è solo un colore, lo stesso, ovunque, e ci sono le tue scelte a tracciare una strada, una scia bianca, non per seguire una rotta, ma per inventarla, finalmente.

Deve essere così, la vita, e la libertà.

Ebbene sì, sono tornato adolescente per un giorno, anzi per 10 minuti.
Lo diventerò ancora, lo diventerò ogni volta che avrò l'occasione di recuperare il tempo che ho perduto con troppi "facciamo un'altra volta".

Spero.

mercoledì 9 maggio 2012

La riproduzione vietata.



Uno dei miei quadri di Magritte preferiti, da sempre.
Che è poi uno dei miei pittori preferiti, da sempre.

Mi rappresenta, credo.

Lo so, il senso dell'opera è un altro, ma non mi interessa.

Quello che io vedo è un uomo, che prova a vedersi e non ci riesce.

E' lì, davanti ad uno specchio, sarebbe così ovvio e banale, vedere sé stessi, conoscersi e riconoscersi, eppure no il pennello beffardo del pittore belga gli propone davanti l'assurda rappresentazione delle sue spalle.

E' un uomo banale, come tanti. Ma davanti ad uno specchio non gli riesce di vedere sé stesso.

E' un uomo banale, come tanti. Ma non può far altro che porgersi le spalle.


C'è di più.


In questa assurdità - la pazzia di un uomo riflesso di spalle - anche chi guarda la scena è privato della vista del suo volto. Detta in un'altra maniera, quell'uomo si specchia ma non si vede e così facendo non si mostra nemmeno agli altri, fuori dal suo quadro.

Passano persone, fuori, lo guardano e non lo conoscono.


Quell'uomo banale che non sa riconoscersi nella sua banalità, non sa nemmeno farsi conoscere e riconoscere dagli altri.


C'è di più.


In questo intrico complicato di specchi che non riflettono e di uomini che non vedono, c'è chi guarda questo quadro con occhi diversi.

E così scopro che io non sono quel riflesso di spalle, e non sono nemmeno l'uomo che si riflette, ma sono l'uomo che fuori dal quadro vede e capisce.

C'è quindi una speranza, di fondo: che chi vede quello che poi è solo un quadro, riesca davvero a vedere e vedersi.

E a commuoversi, magari, davanti alle desolanti spalle di sè stessi.

venerdì 27 aprile 2012

Pausa.

Urge fare chiarezza, ripartire da zero. O forse partire per la prima volta.


Urge riflessione, (tornare a) imparare a stare da soli.


Urge vivere.

E gli animi dawsoniani come me in questi casi ripartono dagli stupidi elenchi, per fare il punto della situazione.




Uno stupido elenco dei miei sogni da bambino/adolescente, per vedere cosa sono diventato nel frattempo.




Lavorare con i computer, o meglio, capirli.
L'immagine è quella del sottoscritto alle spalle del padre di Daniele mentre armeggia con svariati floppy disk per mettere a posto il mio vecchio 486. La mia laurea sarà valsa almeno a far contento il piccolo fraenk affascinato dal mondo dell'informatica.


Scrivere un libro 
Ci ho provato, quando avevo 15 anni. E' venuta fuori una storia assurda di una decina di pagine che non posso certo chiamare libro. Ne ho iniziate tante altre, in diverse occasioni. Prima o poi ci riuscirò.


Diventare giornalista, o almeno vedere pubblicato un mio articolo
No, giornalista non lo sono diventato. Di sicuro non come Clark Kent nei telefilm di Superman di cui ero fan. Ma almeno ho visto pubblicato un mio articolo su un giornale. Diciamo che mi accontento.


Sposarmi e avere dei figli 
Il punto più dolente della mia vita, probabilmente. Oggi so che fino a che resterà un mio progetto, rimarrà un punto irrisolto.


Studiare psichiatria o psicologia 
Ho fatto un esame di psicologia mentre ero all'università. Non posso dire che sia sufficiente, anche perché il sogno vero sarebbe studiare a fondo la mente umana per cercare di vedere quel confine che tanto mi spaventa tra mente e anima.


Diventare archeologo 
Fottuto Indiana Jones, mi ha traviato.


Viaggiare
Dal primo volo che feci, Marzo 2000, Israele. Allora mi resi conto che il mondo è troppo grande e bello e ricco di storie da ascoltare. Vederlo è un dovere. E, volente o nolente, negli ultimi anni lo sto facendo.


Investire in borsa 
Questo deriva forse dal protagonista de "Il destino del leone", Wilbur Smith. E anche un pochetto da "La 25° ora". Fatto sta che non ci capisco una mazza di Economia, eppure mi piacerebbe capire il mondo della borsa.


Pilotare un aereo
Quale ragazzino non l'ha mai sognato? Io, per pochi secondi, l'ho fatto, giusto un mese fa. Bella emozione.


Fare un grab con lo snowboard
Marilleva 1400. Molti ricordi.


Lanciarmi con il paracadute o, meglio ancora, con un deltaplano 
Poco da dire, prima o poi lo farò.
 Suonare la batteria
Avevo 5 anni, credo. Un poster in camera mia raffigurava i personaggi disney, ognuno alle prese con uno strumento musicale. Lì la vidi per la prima volta, e decisi che l'avrei suonata, prima o poi. Mia nonna promise che me l'avrebbe regalata e visto che lei le promesse le mantiene - cascasse il mondo - quindici anni dopo l'ha fatto. Ovviamente non ho mai imparato a suonarla bene, ma mi ci sono divertito un bel po'.

Fare un'incontro di kick boxing
Noritaka mi ha influenzato terribilmente. Ma anche un pochetto Fight Club. Quanto sai di te stesso se non ti sei mai battuto? Mi accontento anche di uno sparring, che spero farò a breve.


Ce ne sarebbero ancora a bizzeffe...diciamo "to be continued"...

martedì 24 aprile 2012

Tutto ciò che vediamo, tutto ciò che sembriamo
non è che un sogno in un sogno soltanto?


Take this kiss upon the brow!
And, in parting from you now,
Thus much let me avow-
You are not wrong, who deem
That my days have been a dream;
Yet if hope has flown away
In a night, or in a day,
In a vision, or in none,
Is it therefore the less gone?
All that we see or seem
Is but a dream within a dream.

I stand amid the roar
Of a surf-tormented shore,
And I hold within my hand
Grains of the golden sand-
How few! yet how they creep
Through my fingers to the deep,
While I weep- while I weep!
O God! can I not grasp
Them with a tighter clasp?
O God! can I not save
One from the pitiless wave?
Is all that we see or seem
But a dream within a dream?
E. A. Poe

mercoledì 18 aprile 2012

There’s plenty of ways to claim his crimes tonight


Conosco questo posto.


Conosco questa oscurità.


Sono già stato qui, in questa stanza senza porte né finestre.


Sono stato qui in un passato non troppo lontano.




Forse è vero che la vita è un loop.






Oggi ho chiamato una persona che non sentivo da anni.


Il telefono ha squillato a vuoto, una volta, due volte, tre volte.
Solleva la cornetta.
Quattro volte, cinque volte.
Solleva la cornetta, ed oggi tornerò ad emergere dal tuo passato.


Ho scelto, finalmente ho scelto di grattare via la ruggine dei problemi che abbiamo conosciuto.


Sei volte, sette volte, otto volte.
Solleva la cornetta e rispondimi, voglio tornare ad emergere dal tuo passato, oggi.


Non è importante quello che ci siamo detti, non è importante quello che abbiamo pensato.


Conta solo questa stanza, senza porte né finestre, da cui non usciremo mai.






Il resto è solo
conseguenza.

giovedì 22 marzo 2012

Forse no.

Probabilmente non era un chupacabras e nemmeno un cane. Non era nulla, non è mai stato.

Come quella ragazza, la più bella ragazza del mondo. Tutto falso. Non c'era nessuno in quel pullman, ero solo. L'autista baffuto, lui sì c'era, lo ricordo bene. Ed è vero che comunque, in generale, è stato un viaggio inquietante.

Ma il punto non è questo.
E' che il mio cervello a volte fa così, prende il reale e lo trasforma un po', lo confonde, lo maschera.
Non lo faccio di proposito, davvero. Quando mi guardo dietro, quando racconto, non riesco a capire dove finisca il reale e dove inizino gli scherzi della mia mente.

E pensarci peggiora solo la situazione.

A volte la realtà è solo leggermente intaccata, qua e là, da qualche dettaglio fantasioso. Altre volte assume i toni di un delirio senza capo né coda.

I medici con cui ho parlato l'hanno chiamata Sindrome di Montis, o una cosa del genere. Una specie di schizofrenia ma una variante più innocua. Nella vita di tutti i giorni non dà complicazioni. E' solo una specie di alterazione dei ricordi.


Almeno così dicono loro.


Credo.


Beh, detta in altre parole, vivo una vita normalissima anche se a ricordarla e a raccontarla non mi sembrerebbe. Ecco, questo blog non è altro che il racconto di quel ricordo.




E' sempre stato così, in fondo.

martedì 20 marzo 2012

Le cose sono andate così.

Anni fa - era il 2005 - aprii il blog fraenk.splinder.com.

"Un ponte tra voi e me, quando migliaia di chilometri di terra e mare ci separeranno", una cosa del genere. Stavo per partire in Erasmus e mi sembrava un modo carino di restare in contatto con i parenti e gli amici che lasciavo a Roma.

Poi tante cose sono cambiate. In erasmus ci sono andato - anche se con diversi mesi di ritardo - e sono tornato.

Sono partito tante altre volte da allora.

E' inutile fermarsi a citare, a fare uno sterile elenco di tutti gli incontri, le storie, le avventure positive e meno, che negli ultimi anni hanno contribuito a fare di me quello che sono oggi. Qui c'è un po' di tutto, tanta musica, qualche recensione, concerti, poesie (non mie), racconti, spezzoni di racconti, classifiche, diari di viaggio, pensieri, e altra roba che non ricordo nemmeno. Di alcune cose mi sono pentito. Altre rileggendole oggi mi fanno solo sorridere. Altre ancora continuano a rappresentarmi e sono quelle di cui vado maggiormente fiero.

Una cosa importante: il pubblico. Importantissimo perché pressoché inesistente eppure fondamentale. La vecchia guardia, costituita dal solo e immenso PjR.
Lo zoccolo duro, costituito dal mio miglior amico emmesurio in molteplici e stravaganti vesti, nonché dall'inarrivabile Federico (il fu BubuPuntoFede). I miei parenti, fedelissimi anche loro.
E poi una manciata di visitatori in incognito, che non ho mai capito come siano approdati su fraenk.splinder.com.

Fondamentalmente, fraenk.splinder.com è nato come uno spazio "riservato" e tale è rimasto negli anni.

Poi è successo che splinder ha chiuso i battenti ed è nato questo ancora giovanissimo fraenksmind.blogspot.com.
Da allora più di una persona mi ha chiesto che fine avesse fatto il mio vecchio blog e così, con un gesto di cui forse mi pentirò, oggi ho deciso di mettere il link nel mio profilo di facebook.

Per carità, nulla di troppo pubblicizzato, anche perché da una parte mi piacerebbe che questo spazio restasse poco frequentato. Ma ora il link sta lì. In fondo se uno scrive su internet non può avere la pretesa di restare davvero nascosto. A questo punto facciamola finita di fare i timidi e riservati.

Che poi, non credo che passerà di qui molta gente - fuorché quelle poche persone davvero importanti.

Senza contare che, con la mia tipica incostanza - di cui questo blog è testimone - probabilmente passeranno altri mesi prima che mi decida a scrivere un nuovo post....

domenica 18 marzo 2012


Le 20.55, alla stazione di Southampton centrale.

Il bus 205, direzione London Heathrow, è vuoto attorno a me. L’autista mi guarda: solo due persone stasera dice. Mi guardo intorno, non capisco bene, forse si è incluso nel calcolo. L’M3 è micidiale, tutta dritta, spero di non addormentarmi, fratello. Ride.

Una volta mi è capitato, ero stanco, avevo 25 persone nel pullman, gli occhi mi si stavano chiudendo, una volta, due volte, tre volte. Mi sono fermato alla stazione di servizio per riprendermi. Una ragazza tra i passeggeri si è arrabbiata, mi ha detto: il mio ragazzo mi aspetta alla stazione, non possiamo fare tardi.

Fratello, l’ho guardata e le ho detto: se non mi fermo adesso, il tuo ragazzo rischi di non vederlo più.

Ok, guarda, non ho nessuna ragazza che mi aspetta a Londra, fai tutte le fermate che vuoi.

Sotto i suoi baffoni neri, ride di nuovo, la sua risata sguaiata. Certo certo, tranquillo brother.

Mi infilo le cuffie, i verlaine attaccano a cantare: “ti meriti di più di un colpo di pistola”. Non so perché ma sembra un presagio.

Il pullman doveva essere già partito, vedo l’autista mettere in moto stancamente. Poi, con poca sorpresa, apre la portiera, e appare lei.

Con indifferenza, quasi fosse normale, quasi fosse abitudine, sale i pochi gradini del pullman e si fa strada tra i posti vuoti e il mio sguardo sorpreso. Probabilmente è il contrasto con il cielo notturno e questo pullman deserto, come la stazione, come la città. Oppure è la naturalezza dei movimenti o la sua solitudine inafferrabile. O forse è davvero la più bella ragazza che abbia mai visto.

Non si accorge di me, naturalmente, si siede pochi posti avanti.

Ora siamo tutti, il pullman può partire e io non mi sono ancora ripreso.

Guardo davanti a me, spero che si volti – che cosa stupida, per quale motivo poi? – ma è una statua di ghiaccio. Comprensibile, a questo punto è forse solo un frutto della mia fantasia, cos’altro potrebbe fare una persona che nemmeno esiste fuorché starsene lì, immobile, come una persona che nemmeno esiste, appunto.

Mentre il bus procede stancamente, mi cade l’occhio sul monitor, giusto sopra la testa del conducente. Una telecamera fissa, attaccata al paraurti, inquadra la strada illuminata malamente dai fari. Non ci sono altre luci, tranne quelle delle poche macchine che raramente ci sorpassano.

Passo lo sguardo dal monitor ai capelli castani di quella ragazza, al monitor di nuovo. Tutto inutile, la strada è sempre uguale e la ragazza è ancora lì, immobile. O almeno così sembra.

La staticità della scena è interrotta solo dal lento oscillare del pullman, che sembra volermi cullare. Rispondo socchiudendo gli occhi, ma non abbastanza da impedirmi di notare nel monitor un punto in movimento sulla carreggiata. L’autista continua ad andare dritto, forse non l’ha visto. Procede lentamente nonostante l’ora e la strada semideserta. Il movimento nel monitor si fa più nitido, acquista i contorni esatti di un cane, sembra un volpino. Il pullman non rallenta.

Il volpino cammina a testa bassa, incurante, dritto verso la sua morte. Solo all’ultimo momento alza lo sguardo, fisso sulla telecamera, sembra voler lasciare un ultimo saluto prima della fine.



L’impatto non c’è. Il pullman sembra attraversarlo di netto, senza nemmeno un sussulto. Trattengo un gemito per non fare la figura dell’idiota, è tutto fin troppo chiaro, è stato solo un sogno.

Maledetta suggestione e fottuto stephen king, giuro, è l’ultima volta che leggo un suo libro.

Con una tempistica eccezionale, quasi stesse aspettando quel segnale, la più bella ragazza del mondo si alza in piedi, e si gira verso di me. Mi passa accanto e finalmente posso vederla negli occhi: almeno ora ho la certezza che esiste ed è strano come anche solo questo pensiero possa essere di una qualche consolazione.

Le sorrido e sembra ricambi, o forse voglio solo illudermi un po’. Dico hola e salutarla in spagnolo è solo una delle tante cose idiote che avrei potuto fare. Mi guarda sorpresa, e un po’ rattristata. Adios, mi risponde, e passando apre la porta del bagno dietro di me.

C’era un bagno. Buffo, non me n’ero nemmeno accorto.

Si chiude a chiave, probabilmente non le ho fatto una buona impressione. Ma perché bastano un bel paio di tette per far girare la testa agli uomini, si sarà chiesta.

Il pullman macina metri, che diventano chilometri. Il disco dei verlaine è già finito da un pezzo e non ho tolto le cuffie mute dalle orecchie. Non mi piace farlo, sono un comodo rifugio quando sono solo in un pullman guidato da un pazzo e con una ragazza bellissima e un po’ inquietante che non accenna ad uscire dal bagno. Che ci sia musica o meno, è assolutamente indifferente.

Altri chilometri, troppi chilometri. Sono passati almeno quindici minuti, la porta del bagno è ancora chiusa dietro di me. Nessun rumore, fuorché quello ingombrante del motore del bus. Mi alzo in piedi e busso. Nessuna risposta. Provo a chiamare, appoggio l’orecchio, niente. Ehi, tutto ok?

Possibile che sia stato davvero un sogno?

Chiamo l’autista. Che succede, fratello? Quella ragazza che è salita prima, l’hai vista no? Si è chiusa in bagno da venti minuti, non esce.

Ti scappa così tanto? Ride. Io no.

Dico sul serio, non risponde, non è che si è sentita male? Ehi fratello, io meglio di così non riesco a guidare.

Please, be serious. Ok, ok, mi fermo a quella piazzola e vengo a controllare.

Accosta molto velocemente, lascia il motore acceso, forse è arrabbiato ma non mi interessa molto, difficilmente diventeremo buoni amici in futuro. Si dirige con passo pesante verso la porta ed inizia a bussare pesantemente. Ehi, signorina. Signorina l’avviso sto entrando. Non attende risposta, con un colpo secco spacca la serratura e spalanca la porta. Un gesto eseguito così velocemente da farmi domandare chissà quante altre volte gli sarà capitato di farlo.

Oh, no, shit. E’ spaventato, ma in un modo strano, quasi con rassegnazione. Insomma anche in questo è diverso da me: io sono terrorizzato.

No, shit, non un’altra volta. La ragazza è seduta sul water, le mutande calate, la testa appoggiata delicatamente alla parete alla sua destra. Su entrambi i polsi, molteplici tagli, come se uno scalpellino impazzito avesse deciso di accanirsi sulle sue vene.

Il pavimento è un lago rosso, ordinato, alimentato dai rivoli che scendono dal lato destro e sinistro del water.

E la cosa che non dimenticherò mai, la sua bocca, carnosa, bellissima, piegata in un insano sorriso.

L’autista non la tocca, forse ha paura ma non lo dà molto a vedere. Grida solo, no, shit! Shit!

Lo guardo, impietrito, trattenendo a stento i conati di vomito.

Chiamiamo la polizia no? Sì, shit. Grida ancora qualcosa che non capisco e prende il suo telefono. Digita un numero e si mette all’ascolto. Fissa il vuoto con occhi impietriti.

Passano secondi, pesanti macigni. Nessuna risposta.

Lo guardo negli occhi, confuso, ma non sembra ricordarsi più della mia esistenza. Sullo sfondo, il monitor continua a trasmettere lo stesso ripetitivo canale di due strisce bianche sull’asfalto nero, male illuminato.

Passa una macchina sfrecciando, al lato. Le luci rosse si spengono velocemente dietro una curva.

Nel silenzio irreale fa capolino nuovamente lo stesso volpino di poco prima, ed è un’apparizione che dà i brividi. Fissa nuovamente la telecamera, stavolta ne sono sicuro, lo fa di proposito, con una calma innaturale ed inquietante. Sembra una sfida, un gioco a cui non so giocare.

Lo vedi? Lo vedi anche tu?

Certo che lo vedo, mica sono cieco. Ma dov’è?

Lo guardo, non capisco. Che vuol dire dov’è? Lo vedi o no?

Sì, sul monitor, ma dov’è? Non vedi, per strada non c’è.

Che cosa assurda, fissare un monitor per non vedere dal finestrino il nastro di cemento che si srotola nel buio. Forse è un meccanismo di autodifesa. Serve per difendersi dal reale e non rischiare di impazzire.

E’ meno semplice di quel che possa sembrare, ma alla fine abbasso lo sguardo e vedo, il cemento, la strada, le strisce bianche. Ma è quello che non vedo a dare i brividi, davvero, non c’è, forse lo stiamo solo immaginando, come diavolo è possibile, dov’è quella bestia a parte nel monitor e nei nostri occhi, e sulla nostra pelle come un brivido agghiacciante? Esistono davvero, da qualche parte, quegli occhi che mi scrutano?

L’autista mi guarda e pronuncia una sola parola, balbettando. Chupacabras.

Andiamocene, brother. Andiamo via, subito, al diavolo tutto.

giovedì 2 febbraio 2012

Mi sa che lo devo fare.

E allora lo faccio.


Si riparte da zero? Ma anche no. Quel che è stato non si cancella.

Uno non passa tanto tempo a scrivere, pure se ad intermittenza, per poi vedere tutto rimosso da decisioni di dubbio gusto.

Devo dire la verità: mi dispiace. Splinder non era una grande piattaforma, ma ha ospitato le mie dawsoniane riflessioni sul senso della vita, sulla musica, sull'erasmus e via discorrendo, per più di sei anni.

Vedere che all'indirizzo http://www.fraenk.splinder.com/ adesso è attivo un redirect verso un tale peeplo.it (?!) mi fa sentire spodestato.

E' come un trasloco forzato, e io odio i traslochi. Le cose sono sempre quelle, è vero. Il letto, l'armadio, la scrivania, c'è tutto, ma è come se non combaciasse più nulla, bisogna ripartire da zero con gli stessi mattoni da incastrare nuovamente, una fatica boia.


Ma poi ci ripenso: negli ultimi anni non è che in fondo scrivessi più così tanto, o così bene. Quel blog era diventato un mortorio e vai a capire che diavolo sia successo.

Prendiamola così, è un'occasione per cambiare, per rinnovarsi.


Troppo male non farà.