mercoledì 9 maggio 2012

La riproduzione vietata.



Uno dei miei quadri di Magritte preferiti, da sempre.
Che è poi uno dei miei pittori preferiti, da sempre.

Mi rappresenta, credo.

Lo so, il senso dell'opera è un altro, ma non mi interessa.

Quello che io vedo è un uomo, che prova a vedersi e non ci riesce.

E' lì, davanti ad uno specchio, sarebbe così ovvio e banale, vedere sé stessi, conoscersi e riconoscersi, eppure no il pennello beffardo del pittore belga gli propone davanti l'assurda rappresentazione delle sue spalle.

E' un uomo banale, come tanti. Ma davanti ad uno specchio non gli riesce di vedere sé stesso.

E' un uomo banale, come tanti. Ma non può far altro che porgersi le spalle.


C'è di più.


In questa assurdità - la pazzia di un uomo riflesso di spalle - anche chi guarda la scena è privato della vista del suo volto. Detta in un'altra maniera, quell'uomo si specchia ma non si vede e così facendo non si mostra nemmeno agli altri, fuori dal suo quadro.

Passano persone, fuori, lo guardano e non lo conoscono.


Quell'uomo banale che non sa riconoscersi nella sua banalità, non sa nemmeno farsi conoscere e riconoscere dagli altri.


C'è di più.


In questo intrico complicato di specchi che non riflettono e di uomini che non vedono, c'è chi guarda questo quadro con occhi diversi.

E così scopro che io non sono quel riflesso di spalle, e non sono nemmeno l'uomo che si riflette, ma sono l'uomo che fuori dal quadro vede e capisce.

C'è quindi una speranza, di fondo: che chi vede quello che poi è solo un quadro, riesca davvero a vedere e vedersi.

E a commuoversi, magari, davanti alle desolanti spalle di sè stessi.