venerdì 16 novembre 2012

Ho ucciso molti uomini - mi hai detto.


La televisione accesa, l'interno è quello di una camera d'albergo extra lusso.
L'uomo in piedi davanti alla finestra guarda fuori, il sole sta sorgendo sul Bosforo.
Nel bagno c'è la doccia aperta. Una ragazza si sta lavando.
L'uomo ha appena finito di scrivere un racconto su un foglio di carta bianco. La penna è adagiata accanto alle ultime parole: "E quel bambino, ero io".
Si sta chiedendo cosa ci sia di vero in quello che ha scritto. Sicuramente non c'è nessun acquario vuoto lì, questo è evidente. E nemmeno sta impugnando una pistola. Ma tutto il resto?

E' un ricordo? Un'invenzione?
Dove finisce il reale e dove iniziano gli scherzi della mia mente?

E' il confine, quello è il difficile da trovare, puoi impazzire a cercarlo per anni. Il confine tra terra e mare, tra anima e psiche, tra realtà ed invenzione.
Il confine tra psicosi e normalità, se solo esistesse davvero la normalità in questo mondo.

Disturbo borderline di personalità: forse è di questo che si tratta.



Che vuol dire?
Che vuol dire cosa?
Quello che hai detto stanotte. Ho ucciso molti uomini, mi hai detto
 
La ragazza è uscita dalla doccia, si è infilata l'accappatoio, si é asciugata. I capelli biondi sono scombinati, scendono confusi sopra il suo seno, coprendolo solo parzialmente. È alta, quasi quanto lui.
Lo guarda fisso negli occhi, e non c'è nel suo sguardo alcuna traccia del sorriso che mesi fa gli tolse il sonno.
Guardandola in piedi, nuda di fronte a lui, l'uomo si sorprende a tremare.

E' come se lo avessi fatto.

Con una grazia da fermare il cuore, si sfila l'accappatoio e si siede sul letto, ancora sfatto.
Sempre senza un sorriso.
È quello ad essere davvero agghiacciante, non le sue parole, nè i suoi gesti così freddi e distaccati nella loro perfezione estetica. È quella totale assenza di sorriso, la mancanza di un conforto che ormai non è più.

Ecco perché sta tremando.
Si sentiva a casa pochi minuti fa. Ora è in un posto sconosciuto, per la prima volta.


E non averlo fatto è stato proprio come averlo fatto.


Che intendi?

Non sono una bella persona, Jeff. Tu non mi conosci affatto. Gli uomini vengono da me cercando un conforto, attratti dalla mia bellezza, dalla mia intelligenza, dalla mia ironia. E tutti - tutti - fanno una brutta fine. Certo non ho mai ucciso nessuno veramente, ma è come se lo avessi fatto. Sono una fiamma accesa che puoi ammirare solo da lontano. C'è una distanza di sicurezza, capisci? Una distanza che devi mantenere per restare vivo, e godere di me e non bruciare. Ma questa distanza non l'hai rispettata. Ne ho visti tanti cadere e bruciare in questo modo assurdo, per un errore tanto ingenuo. Tu non sei che uno dei tanti. Cazzo, siete delle specie di falene. E siete maledettamente prevedibili.

Io non sono uno dei tanti, non sono come gli altri.

Infatti, sei peggio di loro. Stai bruciando e nemmeno te ne sei accorto.

Non é vero, sto benissimo. Mai stato meglio.

Sorride, meglio che può.

Ho anche iniziato a scrivere un racconto. Finalmente ho ripreso a scrivere. Ho superato il mio dannatissimo blocco. Avevo ragione a pensare che tornare qui mi avrebbe aiutato.

Sì, la storia di un bambino che uccide un uomo seduto su una panchina. Bel racconto, complimenti.

Come fai a saperlo? Non te ne ho parlato.

Sì che lo hai fatto, solo che non lo ricordi con esattezza, si torna sempre lì. È una storia vecchia quella, una brutta storia che ancora non hai superato. Ma il punto non è questo.

E qual è il punto allora?

Il punto è che sei un matto schizzato, matto come un cavallo. Sei impazzito del tutto quando me ne sono andata, e da allora non ti sei più ripreso. Oddio, non che prima fossi del tutto normale, con quella sindrome strana che hai solo te. Ma da quando me ne sono andata, è tutto peggiorato.


Lui la guarda negli occhi. Ora vorrebbe andare via, essere altrove.



Facciamo così, ti piace scrivere giusto? Ho un nuovo racconto per te.


Si alza in piedi, ancora nuda attraversa la stanza fino a sedersi sulla sedia davanti alla scrivania. Per tutto il tragitto lui non le ha tolto gli occhi di dosso. Continua ad osservarla mentre scrive alcune frasi su un foglio, accanto al racconto che lui ha lasciato lì, incompiuto.

Finalmente finisce, alza lo sguardo, lo fissa sugli occhi di lui.

Vediamo se ora capisci.

Gli porge il foglio e torna a sedersi sul letto.

Sono solo poche righe, sembrano una parte di un racconto, la descrizione del dialogo tra un ragazzo e una ragazza eppure terminano con le parole "si rigirò nel letto, solo".



Ma non è importante il racconto in sé.
Il punto è la scrittura, la grafia, che è la stessa dell'altro foglio.

Quello che ha scritto lui.










Non ha bisogno di alzare gli occhi dal foglio per capire che lei non è più lì.

sabato 3 novembre 2012

Il buon jazz

Il cotton club di Roma di trova dietro piazza Istria. In una via davanti alla quale sono passato per 5 anni, andando a scuola. Eppure io 'sto locale io non l'avevo mai notato. Forse perché non ha aperto da tanto tempo. O forse perché da fuori sembra decisamente bruttino, o, quantomeno, insignificante.

Tralascio la fase organizzativa della serata: io e il gigante surio abbiamo dato il meglio di noi nella nostra lotta contro un destino avverso che si é palesato in una serie di buche all'ultimo minuto rifilate da gente di tutti i tipi.
Basti sapere che alla fine, in un modo o nell'altro, un gruppetto di sei persone ce l'abbiamo fatta a tirarlo su, e cosí siamo andati a sentire cosa aveva da raccontare il grande Lino Patruno con i suoi "blue four".

Giá l'interno del Cotton Club ci porta indietro nel tempo di una settantina d'anni. Non solo per l'allestimento della sala, che sembra uscita dagli anni 40, ma anche per l'etá media del pubblico, decisamente altina.
Probabilmente siamo gli unici ad avere meno di 40 anni, ma ce ne preoccupiamo poco e ci accomodiamo al nostro tavolo, situato in uno scomodissimo angolo da cui praticamente non si vede il palco. E vabbé.

Appena salgono sul palco Lino Patruno e il suo violinista, si capisce subito che la serata sará di grande livello.
Dico subito che Lino é il nonno che tutti noi vorremmo avere.
Un vecchietto sorridente che con una voce ammaliatrice ed una chitarra in mano ti parla della storia della musica, ti racconta di Joe Venuti, di New Orleans, del Jazz, e tutto questo non (solo) da grande esperto ed amante di quel mondo lì, ma da vero protagonista. Un po' come sentirsi raccontare la seconda guerra mondiale da un reduce, solo che questa è musica, è bellezza, non c'è sofferenza o rimpianto nelle sue parole ma solo un grande sorriso mentre divertito racconta storie assurde di molisani emigrati in america per inventare il Jazz e poi morti giovanissimi a seguito di operazioni sbagliate, o la storia di Bing Crosby il primo grande cantante bianco di Jazz, o l'incredibile storia di Django Reinhardt, il chitarrista che perdendo due dita in un incendio inventò una tecnica chitarristica tutta sua, che ancora oggi lascia ammirati i fan del genere.
La serata vola così, con Lino che introduce ogni pezzo raccontandone la genesi e l'importanza artistica, accompagnato da un gruppo di musicisti che sono dei veri e propri personaggi. Su tutti, il trombettista Michael Supnick e il vocalist Clive Riche, che tengono il palco alla grandissima.
Ma il vero protagonista è probabilmente un sax basso degli anni 20, un oggetto spettacolare solo a vedersi, e con un suono caldo e profondo che ha stregato tutti i presenti. Il sax di suo ha un suono bellissimo, ma ragazzi questo veniva proprio da un altro pianeta.

La serata non poteva non concludersi con l'acquisto di un cd, e gli autografi di rito, e le foto di gruppo con quasi tutta la band, e le strette di mano, e i complimenti a profusione, e i ritorneremo sicuramente.


E rimane nell'aria un sospetto, che con il passare del tempo diventa convinzione.
Siamo nati nell'epoca sbagliata, in ritardo di una sessantina d'anni.

Mannaggia a noi.