mercoledì 15 agosto 2007

Erano le grida.



Non le fiamme, il fumo, la paura. Non le esplosioni, le lenzuola calate in tutta fretta dalle finestre, nell'immenso e terribile scenario di un albergo in fiamme. Un uomo si aggrappava, con la forza della disperazione, ad un tubo di metallo, affidando la sua vita alla resistenza di quel misero pezzo di ferro. Un altro lanciava valigie dal quarto piano, sperando potessero rendere meno doloroso l'atterraggio, se e quando fosse arrivato il momento di lanciarsi.





Ma prima di tutto questo.





Erano le grida.









Grida come lame, a falciare il petto ed entrare nel cuore, dentro, a fare male.



Grida di donne.



Gli uomini, loro urlavano "aiuto!" ma non era la stessa cosa. C'era paura nella loro voce, questo sì, ma non c'era disperazione.

Le grida di donne erano diverse.







Penetravano.





In un modo che avresti giurato di non poter dimenticare, e infatti non lo dimenticai quando - solo un mese dopo - sentii quello stesso grido, ancora una volta, e c'era dolore - e disperazione - in quel letto d'ospedale e in quella donna portata in tutta fretta in una sala,

le gambe ustionate,

completamente,

tremano,

o Gesù mio,

dicono che è esploso un fornello, dicono,

è incinta,

al quinto mese, dicono,

ed è su un letto d'ospedale, a gridare la sua disperazione e a rievocare in me quell'albergo, e le fiamme, questa sì è pura disperazione, da far paura,

davvero, 

da morirne.





Ecco cosa.





C'è la morte, in quelle grida. E non è una morte lieve, leggera, che passa delicata come l'ultimo sospiro di



















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Il foglio si interrompe qui.















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Tra poche ore parto. Sì, sempre Granada, ovvio.



Eh già, un altro matrimonio...





No, non sarà l'ultimo.





Vado a fare i bagagli. Ci si vede presto, gente.